Ri_visitati. Einsteinturm, un secolo e non sentirlo - Giornale dell'Architettura

2022-06-02 08:44:20 By : Ms. Angela Her

Edizione mensile cartacea: 2002-2014. Edizione digitale: dal 2015.  Iscrizione al Tribunale di Torino n. 10213 del 24/09/2020 - ISSN 2284-1369 Fondatore: Carlo Olmo.  Direttore: Luca Gibello.  Redazione: Cristiana Chiorino, Luigi Bartolomei, Milena Farina, Laura Milan, Arianna Panarella, Michele Roda, Veronica Rodenigo, Ubaldo Spina.

Written by: Francesca Petretto • 10 Dicembre 2021• Mosaico Progetti

Non è di questo mondo, non lo è mai stata la Torre Einstein costruita da Erich Mendelsohn cento anni or sono per celebrare la Teoria della relatività dell’amico, Nobel per la Fisica di cui porta il nome. Iconica, dinamica, figlia di un’età dell’oro delle arti e delle scienze nella Germania di Weimar, sovrasta un piccolo pianoro del parco scientifico che le si sviluppa attorno, nascosta alla vista da un bosco intervallato da insolite architetture, creature che paiono come lei uscite da un film di Murnau o di Fritz Lang. D’altro canto negli anni ’20 e ’30 molti architetti tedeschi amavano stare dietro la macchina da presa, a disegnare fantastiche scenografie per pellicole leggendarie come Il Golem di Paul Wegener (scenografia di Hans Poelzig) o Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene (scene di Hermann Warm). Mendelsohn stesso lavorò a lungo nel mondo del teatro, bozzettista di costumi, scene e interi allestimenti: le sue architetture ne sono testimoni, figlie di un tempo di mezzo, sospeso tra sogni e tecnica, arte, misticismo, scienza e fantasia. Bruno Zevi è stato il primo in Italia a comprendere la portata della sua opera, scoprendo un uomo dai molti talenti artistici, figura emblematica della diaspora d’intellettuali, artisti e accademici ebrei dichiarati nemici e razza inferiore (non solo) dalla Germania nazista.

La Torre Einstein stessa è uno degli ultimi vagiti di una felice generazione, figlia di tre padri, gli ebrei tedeschi Erich, Albert e Erwin Finlay Freundlich. Astronomo, fu costui a chiedere al giovane Mendelsohn, allora soldato sul fronte della grande guerra, un osservatorio astrofisico per i primi esperimenti sulla Teoria della relatività. L’architetto reagì subito con una serie di piccoli, affascinanti schizzi da cui riemerge il giovane sognatore, appassionato amico degli artisti del gruppo espressionista Die Brücke, chiamato a confrontarsi per la prima volta con un progetto di architettura vero – il più costoso del primo dopoguerra in Germania – che gli poneva la soluzione di seri quesiti tecnici e scientifici.

C’è chi lo definisce «architettura espressionista» e chi preferisce la definizione di «organica», secondo la leggenda usata per la prima volta da Einstein in visita al cantiere di costruzione. Fatto sta che fu Mendelsohn negli anni seguenti a scegliere il secondo aggettivo per il proprio modo di fare architettura. L’organicità della Einsteinturm risiede nel suo modo di tenere inscindibilmente uniti scienza e arte, esercizio di Gesamtkunstwerk in cui è riconoscibile sia l’eccitante sviluppo della fisica moderna e il suo ripercuotersi sul mondo contemporaneo, sia quello delle tecniche costruttive e dei linguaggi artistici. Prodotto di un tempo relativo, è una sorta di organismo nato da un’unica eruzione vulcanica di cemento, un Golem dall’apparenza forte eppure fragile, dal carattere ribelle. Il suo artefice crede di poter padroneggiare una tecnica di cui sia lui sia le sue maestranze hanno poca o nessuna dimestichezza: nel 1921 la tecnologia delle casseforme non è ancora stata sviluppata al punto da permettere forme e superfici omogenee ondulate cosicché bisogna optare per un compromesso, una struttura mista in mattoni (base, tetto e torre), cemento (scala e tamburo cupola) e legno (cupola rotante) spruzzata superficialmente, per dare l’idea di omogeneità, con un intonaco color ocra a base cementizia.

Per visitare l’Einsteinturm bisogna prendere un appuntamento col Leibniz Institut für Astrophysik di Potsdam, perché l’osservatorio solare è ancora operativo, dotato di tecnologie all’avanguardia per lo studio del comportamento dei campi magnetici dell’attività solare: li si misura con l’aiuto di un doppio spettrografo e due analizzatori di polarizzazione fotoelettrici. Tutto ciò è stato reso possibile dallo stanziamento, nel 2015, di circa 43.000 euro da parte della Getty Foundation in seno al programma «Keeping It Modern». La somma ha coperto i costi di uno studio completo sulle condizioni della torre e delle sue attrezzature scientifiche.

Per quanto concerne più squisitamente l’architettura, quella che visitiamo oggi ha ritrovato nell’ultimo grande restauro degli anni ’90 la sua organizzazione spaziale interna originaria. L’ingresso si trova a nord, percorrendo una piccola elegante struttura a gradini, un corpo di fabbrica estroflesso; da qui si accede al piccolo atrio che anticipa uno studiolo sovrapposto sul lato sud a una piccola stanza da letto. L’anima dell’edificio è costituita dalla strumentazione scientifica e dai locali a essa destinati: una torre dentro la torre per il telescopio con fondazioni proprie, separate da quelle dell’involucro murario per non trasmettere al misuratore le oscillazioni dovute a vento e temporali che ne possono falsare i calcoli. Il laboratorio è sotterraneo: una sala spettrografica a temperatura stabilizzata lunga circa 14 m; qui, la luce solare catturata dall’alto viene scomposta nelle sue componenti spettrali e analizzata.

Sebbene soggetta, rea la discontinuità della sua struttura, a ripetute ristrutturazioni (1927, 1940-41, 1958, 1964, 1974-78, 1984 e infine 1997-99 grazie alla Fondazione Wüstenrot), non si possono non riconoscere alla creatura di Potsdam incredibile capacità di resilienza e fascino eterno, al suo ancora giovane e inesperto demiurgo facoltà che travalicano i confini del tempo e dell’architettura. La fragilità umana della Torre, il suo continuo fabbisogno di cure capaci ogni volta di farla resuscitare per vivere brevi e intense stagioni di gloria, la rendono, soprattutto in questi tempi di pandemia, un esempio che può servire da monito per il futuro non solo dell’arte del costruire.

Il suo forte potere di suggestione può essere utilizzato per fini scientifici, educativi, etici e politici. Lo affermano con orgoglio al Leibniz Institut, che inserisce le ore di laboratorio nei suoi locali tappa obbligatoria del piano di studi dei suoi più giovani allievi e promette, non appena passata l’emergenza pandemica, di riaprire la Torre a scolaresche e visitatori di tutto il mondo. Lo ricordano le parole che Mendelsohn stesso rivolse, nel 1951, a chi gli chiedeva di tornare a Darmstadt per partecipare a una mostra sull’architettura tedesca: «Se la Germania non avrà il coraggio e la perspicacia per sradicare pubblicamente l’ostilità perpetrata in nome di una cultura nazionale e col tacito consenso generale, io non posso come ebreo contribuire al significato culturale di questo paese».

Immagine di copertina: foto di Daniela Völkel

Nata ad Alghero (1974), dopo la maturità classica conseguita a Sassari si è laureata all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Ha sempre affiancato agli aspetti più tecnici della professione la passione per le humanae litterae, prediligendo la ricerca storica e delle fonti e specializzandosi in interventi di conservazione di monumenti antichi e infine storia dell’architettura. Vive a Berlino, dove esegue attività di ricerca storica in ambito artistico-architettonico e lavora in giro per la Germania come autrice, giornalista freelance e curatrice. Scrive inoltre per alcune riviste di architettura e arte italiane e straniere

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