Canapa di Calabria, un settore andato in fumo

2022-08-13 10:01:43 By : Mr. Brave manager

La cannabis rappresenta da secoli una risorsa per l'agricoltura locale. Ma nonostante la grande qualità della materia prima la regione non è mai stata in grado di sfruttare a dovere il suo tesoro

La canapa è come il maiale, non si butta via proprio nulla. Lo sostengono a gran voce coltivatori e commercianti che negli ultimi anni, anche in Calabria, hanno deciso di puntare sui molteplici usi della cannabis industriale, principalmente nei settori tessile, alimentare e della cosmesi. Sono tante le aziende calabresi, soprattutto a carattere famigliare, che hanno deciso di coltivare a cannabis appezzamenti di terra prima destinati all’incolto, applicando nuove tecniche e tecnologie a una coltura che si pratica nelle province di Calabria Citra ed Ultra già da cinque secoli.

Nel 1777 lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne percorreva in sella a un cavallo il tratto di costa ionica da Bova a Reggio Calabria quando s’imbattè in “un paese delizioso”, Pentidattilo. Qui ebbe modo di apprezzare che «le condizioni dell’agricoltura erano molto migliori di quelle che avevo visto finora in questa provincia». Così come che «la terra è coltivata con perizia e cura maggiori e di conseguenza dà raccolti più ricchi». Il giudizio finale dello scrittore è netto e lusinghiero: «La sua canapa è la migliore della Calabria». Era tempo di raccolto e il colto viaggiatore non poté fare a meno di annotare che, nonostante l’impegno, «sembrava che [i contadini] ci mettessero troppo per la scarsità di manodopera».

Strumenti per la lavorazione dei filati. Dipignano,, Museo del rame e degli antichi mestieri. (foto L. Coscarella 2019)

Il primo a proiettare un poderoso fascio di luce su «queste due derrate così utili», il lino e appunto la canapa, è il marchese Domenico Grimaldi. L’opera Saggio di economia campestre per la Calabria Ultra (Napoli, 1770) è un’attenta disamina in perfetto stile illuminista e riformatore dello stato dell’economia agricola della parte meridionale della regione. L’obiettivo è il superamento dell’ignoranza, dell’indolenza e della rassegnazione delle classi dirigenti. Ossia quelle che impedivano la piena valorizzazione dei tanti “tesori” a portata di mano. Grimaldi definisce quella della canapa una «coltura ristrettissima». Eppure, commentava, «potrebbesi nella Calabria dilatare assai più, essendovi una quantità immensa di terreni, dove la canapa riuscirebbe della più sopraffina che vi sia». Il clima moderatamente caldo e i «terreni leggieri» del sud della Calabria determinerebbero secondo Grimaldi «file assai più fine». Altra cosa, dunque, rispetto a quelle venute su in «terreni forti, ed umidi» e climi freddi.

Da buon illuminista Grimaldi fa parlare i numeri e l’esperienza diretta. Da 25 libbre di canapa di scarsa qualità, buona soltanto per la produzione di corde, racconta di essere riuscito a ricavare «libre 9 e mezza di finissima, che non era inferiore al più bel lino d’Olanda e, libre 14 di stoppa così bella, che se ne poteva far ovatta, come il cotone, e che filata ha reso un filo anche bellissimo». Il “segreto” risiede a suo parere nell’ultima scoperta «sulla maniera di purgar la canapa». Quale? Nettarla da quelle «cannucce non ancora ben macciolate», cioè dalla parte più grossolana. Con questo metodo «nella Provincia si potrebbe avere la più bella, e finissima canapa del Mondo, le stoppe veramente eccellenti, e che servirebbero a più usi».

Riguardo alle fasi cruciali della pettinatura e alla filatura Grimaldi parla chiaro. La canapa calabrese potrebbe acquistare in qualità se pettinata con «pettini francesi, e la ver’arte di pettinare». Le donne calabresi, precisa, «filano alquanto bene». Ma nessun barone o ricco proprietario ha mai pensato di perfezionare la loro arte facendo «venire qualche contadino forastiero perito della coltivazione della canapa; e delle buone filatrici e tessitrici». Coltivando la canapa in Calabria alla «maniera forastiera», facendo cioè arrivare degli esperti «per insegnare a manifatturarla», i baroni o ricchi proprietari potrebbero impiantare una fabbrica di tele fine. I costi? Secondo il marchese «con meno di tre mila ducati si potrebbe introdurre una picciola fabbrica di tele, ed a misura potrebbe crescere, e rendersi considerabile».

Di canapa scrisse anche Corrado Alvaro. Lo fece nel 1941, in Civiltà, una poco conosciuta “Rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma”. L’articolo, corredato da belle fotografie, era dedicato alla produzione nel Bolognese e nel Ferrarese. Ma non manca un riferimento al Meridione: «La canapa è cosa vecchia come il mondo nostro Mediterraneo. Non ha mai mutato nome, e si chiamò “cannabis” in greco come in latino. In quasi tutta l’Italia meridionale serba questo nome: si chiama “cànnavi”. In bolognese “cànnva”. In sanscrito era “cana”[…] Con la lana e il lino ha vestito l’umanità per migliaia di anni».

La lavorazione della canapa, foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numero di “Civiltà” del 1941

La provincia di Reggio era quella dove la canapa trovava terreno fertile alla sua proliferazione. Superava persino il lino tra le piante tessili utilizzate. «Nei paesi del circondario di Reggio, e massime nelle campagne adiacenti il capoluogo, si coltiva su larga scala la canapa e subordinatamente il lino, che crescono giganti, raggiungendo la prima l’altezza di due metri». La destinazione era la solita produzione di tessuto per corde e cordame, in primo luogo. Non mancava, tuttavia, l’utilizzo per capi di abbigliamento popolari. Così le donne tessevano tele di lino, cotone o canapa «per uso di camicie, di mutande, di lenzuola».

Il terreno per la coltivazione della canapa, che doveva essere profondo e sufficientemente umido, veniva preparato nei mesi di marzo e aprile con la pulizia dalle erbacce, la concimazione e la semina. Una volta venute fuori le piantine, il terreno veniva irrigato per inondazione. E così si arrivava al momento della fioritura, in genere tra fine giugno e luglio. In questa fase le piante venivano strappate con tutte le radici e riunite in “mannelli” pronti per la fase della macerazione. La presenza di queste terre irrigue aveva risvolti meno felici. Si ipotizzava che le stesse causassero la diffusione della “febbre intermittente o palustre”, una delle maggiori cause di mortalità della popolazione agricola. Inoltre la vegetazione troppo fitta, che impediva il passaggio dell’aria, e le stesse fasi della macerazione della pianta (fatta senza alcuna precauzione) e dell’essiccazione erano considerate promotrici dello sviluppo di febbri miasmatiche.

Le fasi della lavorazione della Canapa (da Encicolopedia Popolare Sonzogno, 1928)

Il processo di lavorazione delle piante seguiva metodi che venivano definiti già allora letteralmente “primitivi”. «Giunte queste piante a maturità, e private dei loro semi, vengono raccolti in fasci, i quali si pongono a macerare in larghi fossi scavati sul lido del mare od in apposite gore situate lungo i corsi d’acqua, fissandoli con grosse pietre. Dopo otto o dieci giorni, e quando l’agricoltore si accorge che la parte tigliosa è ben macerata, i fasci si tolgono dall’acqua stagnante, si fanno asciugare al sole e poi si gramolano con un rostro a battitoio di legno».

La canapa veniva piantata anche nei gelseti. Fatto sta che gli ettari coltivati in tutta la provincia di Reggio erano circa 1200. Nel 1879 avevano prodotto 8000 quintali di canapa. Per fare un confronto con la “pianta concorrente”, il lino, sappiamo che nello stesso periodo si coltivavano a lino 1748 ettari, che avevano prodotto 6000 quintali di lino.

Strumenti per la lavorazione della canapa

In provincia di Cosenza la macerazione di lino e canapa era malvista per la credenza che nuocesse alla salute. Si registrarono, infatti, alcune morti di animali che avevano bevuto le acque dei “maceratoi”, ma non c’erano conferme. In provincia, al 1883, rispetto al lino la produzione della canapa faceva registrare cifre inferiori. La procedura di lavorazione, però, era simile e richiedeva una fonte d’acqua per la macerazione. A volte si scavavano delle fosse nel terreno dette “vurghe”. Si riempivano d’acqua di fiume o di sorgente incanalata con un rivolo che scorreva rinnovando continuamente l’acqua delle fosse. Al loro interno si mettevano a macerare il lino o la canapa. Il tempo necessario oscillava fra i 10 e i 15 giorni. Nei dintorni di Rossano la macerazione avveniva in acque stagnanti in riva allo Jonio o nel letto dei fiumi. Capitava così che le alluvioni distruggessero tutto il lavoro.

Dopo la macerazione la canapa veniva asciugata al sole. Poi si lavorava con un “ordegno” formato da due pezzi di legno, uno fisso e uno mobile. Tra essi si inseriva il prodotto che doveva essere maciullato e ridotto in sostanza utile per la filatura. Non erano stati ancora introdotti sistemi di lavorazione meccanica. Intorno al 1880, nel Catanzarese, la coltivazione della canapa era rara. La si poteva incontrare «appena in qualche orto e nelle vicinanze di Filandari».

Memoria di Vincenzo Ramondini per migliorare la lavorazione della canapa in Calabria Ultra

Alcuni dati di qualche anno dopo ci informano che nel 1892 in Calabria si utilizzavano per la coltivazione della canapa 417 ettari, 11 in più dell’anno precedente. Di questi 228 erano nel Vibonese e 133 nei dintorni di Palmi. Su questi terreni, nel 1881, la produzione ammontava a 2161 quintali di canapa, divenuti 3271 l’anno seguente. Si trattava comunque di una produzione limitata all’uso locale.

Sul finire dell’Ottocento c’è traccia di diversi opifici che utilizzavano la canapa per la fabbricazione di cordami. Nel Reggino operavano ben ventuno piccole fabbriche. Sette erano a Polistena e le altre sparse tra Sant’Eufemia d’Aspromonte, Gioiosa Ionica, Bagnara Calabra, Caraffa del Bianco, Mammola, Rosarno e Seminara. Quelle di Polistena e Gioiosa erano le più importanti. Oltre spaghi e cordicelle, producevano anche «funi grosse a cavi doppi di cui si servono i mulattieri ed i marinai». La materia prima non era solo locale, ma reperita anche a Napoli e Messina. Il commercio dei prodotti, invece, rimaneva essenzialmente locale.

A Cetraro, sul Tirreno cosentino, erano attive quattro piccole fabbriche che occupavano quattro uomini e cinque donne. Al loro interno si adoperava canapa proveniente da Napoli per produrre cordami «con semplici congegni torcitoi a mano». Tre fabbriche a Fuscaldo, invece, impiegavano canapa di produzione locale per produrre cordoncini e spaghi grazie al lavoro di cinque uomini e una donna.

Nel Catanzarese le fabbriche di cordami operanti a fine Ottocento erano cinque. Tre erano operative a Soriano Calabro e le altre a Cortale e Chiaravalle Centrale. I macchinari erano assenti, ad eccezione dei soliti «semplici congegni torcitori a mano». La produzione era riservata all’uso agricolo, impiegando canapa locale e altra proveniente dalle provincie di Caserta o di Reggio Calabria. Una porzione rilevante era comunque destinata all’industria tessile casalinga. Erano migliaia i telai che tessevano lino e canapa, ma i prodotti si realizzavano quasi sempre per uso degli stessi produttori.

Altra foto tratta dall’articolo di Corrado Alvaro apparso sul numeri di Civiltà del 1941

Nei primi del Novecento la coltivazione della canapa aveva «importanza limitatissima». I circondari di Monteleone, l’attuale Vibo Valentia, e Palmi, in provincia di Reggio, erano ancora le zone più utilizzate. Le aree coinvolte erano in genere terreni irrigui posti lungo i torrenti. Nel 1908 la produzione di canapa raggiungeva i 6 quintali per ogni ettaro di terreno. Ma le industrie del settore, come anche quelle del cotone, del lino e della iuta, si erano «arrestate allo stato d’industrie casalinghe».

Sul numero di telai operanti a inizio del secolo, sappiamo che erano 5137 quelli adibiti alla tessitura di lino e canapa in questa industria casalinga. Sempre unitamente per lino e canapa, sappiamo che gli artigiani filatori erano 35 uomini e ben 62.040 donne (delle quali più di 60 mila la esercitavano come attività principale, e 1766 come professione accessoria). I tessitori delle stesse materie, invece, erano 20 uomini e 8709 donne (delle quali 8279 lo svolgevano come mestiere principale). Il prodotto veniva utilizzato nei 38 opifici per cordami censiti nel 1901, nei quali erano attivi «99 congegni torcitori a mano» e «lavoravano 120 individui». Altri 117, a loro volta, lavoravano come “indipendenti”. Tuttavia il livello d’innovazione in questo campo fu sempre quasi nullo. Metodi primitivi, strumenti a mano, scarsa richiesta di esportazione facevano del settore della canapa calabrese un’industria locale con scarse prospettive.

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