Bill Streever: “Anche gli abissi vanno protetti dall’uomo” - La Stampa

2022-09-10 07:51:09 By : Ms. wendy wang

La voce de La Stampa

A colloquio con lo scrittore americano, che il 6 settembre a Roma presenta il suo libro “Oceano profondo” (EDT). “Servono regole e un organo di controllo. Spero nell’Onu”. La magia dell’apnea, il futuro delle immersioni e la scelta di vivere in barca

Un curioso ritratto in immersione di Bill Streever

L’americano Bill Streever è un biologo, uno scrittore e un esploratore del mare e dell’ambiente che ci circonda che ha deciso di mollare gli ormeggi e di vivere in barca con la moglie. Ultimamente sta navigando lungo la costa occidentale del Messico. “Nella primavera del 2023 dovremmo attraversare il Pacifico e approdare nella Polinesia francese. Se mai ti trovassi in quella zona...”, mi dice.

Martedì 6 settembre, alle 18.30, sarà alla Libreria Il Mare di Roma e prima ancora, in mattinata, sarà ospite di Radio 3 Scienza. Un soggiorno italiano per raccontare di un mondo incredibile e ancora per buona parte sconosciuto: il profondo, gli abissi, il fondo degli Oceani. Un pianeta a parte, che conosciamo meno quasi dello spazio.

Il suo ultimo libro, “Oceano profondo”, pubblicato da EDT, è una lunga immersione nella storia, nella scienza e nell’avventura che ha portato l’uomo sotto i mari. Il batiscafo Trieste di Piccard e Don Walsh (che lui incontra), ma anche Victor Vescovo, che ha toccato i punti più profondi degli Oceani. La magia dell’apnea, ma anche i passi in avanti della tecnologia che ci hanno consentito di vivere sott’acqua. E poi, i robot sottomarini, le nuove frontiere dell’esplorazione e, inevitabilmente, la salvaguardia del mare. Dopo averlo conosciuto, l’Oceano va difeso. E le minacce sono tante.

Bill, che cosa c’è e che cosa immagini ci sia sul fondale degli oceani?

"I fondali oceanici rappresentano un’area enorme del nostro pianeta, dagli estuari dei fiumi alle piattaforme continentali, dalle pianure abissali alle fosse oceaniche. Che cosa c’è laggiù? Be’, che il fondale sia poco o molto profondo, in grandissima parte c’è quello che viene comunemente considerato fango. Ma sparpagliate in quel fango, sulla sua superficie o all’interno, ci sono strane e meravigliose forme di vita, in certi casi e in alcuni posti anche sorprendentemente varie e abbondanti. Pensiamo per esempio alle bocche idrotermali, che gli uomini hanno osservato per la prima volta nel 1977 e che si trovano in acque molto profonde, più o meno sui 3000 metri, dove non c’è luce. È un mondo buio, la fotosintesi è impossibile, eppure lì ci sono dei batteri che sopravvivono utilizzando il solfuro di idrogeno e rappresentano la base di una catena alimentare che finisce per nutrire vermi tubo giganti, granchi e persino pesci. Per fare un esempio più comune pensiamo alle barriere coralline, in cui la vita esplode ovunque, perché anche il substrato è vivo. Man mano che si scende la conformazione della barriera cambia. Spesso più in profondità il corallo piatto prende il posto dell’acropora ramificata e della madrepora a pinnacoli, ed è via via più facile vedere spugne, gorgonie e altre specie. In acque ancora più profonde ci può essere un’abbondanza di nudibranchi, conosciuti soltanto grazie ai reperti fossili che si trovano nelle acque più basse. Il mare inoltre è un ambiente molto vario e ricco. Anche gli habitat terrestri lo sono, naturalmente, dato che il cielo è popolato di uccelli e di insetti, ma questo vale in misura maggiore per gli oceani, che sono ricchi non solo di pesci ma anche di tartarughe marine, balene e delfini, calamari, gamberetti e una grande varietà di creature gelatinose. Sappiamo che sia le tartarughe liuto, che respirano aria, sia alcune specie di mammiferi marini si spingono a oltre mille metri di profondità. Purtroppo però in qualsiasi parte degli oceani, anche negli abissi e nelle zone meno esplorate, troviamo i segni del passaggio umano: per lo più rifiuti e altre forme di inquinamento, tra cui quello acustico, prodotto dalle navi e dall’esplorazione petrolifera”.

Il fondale dell’Oceano è meno conosciuto di Marte. L’area ancora ignota, pari a circa il 20% del totale, è ampia 308 milioni di metri quadrati. Ma perché non abbiamo sviluppato la stessa bramosia del sapere per il fondale che ci ha portati nello spazio?

“Bella domanda, a cui è difficile rispondere. Fino a non molto tempo fa, soprattutto a causa delle ricerche del naturalista inglese Edward Forbes sui fondali del Mar Egeo, molti scienziati erano convinti che oltre certe profondità non ci fossero esseri viventi. Anche adesso però, pur sapendo che persino nelle zone più profonde dei mari ci sono delle forme di vita, l’interesse per questa parte del mondo è decisamente minore rispetto alle attenzioni che si rivolgono allo spazio. Perché? Don Walsh, che nel 1960 insieme a Jacques Piccard è stato il primo uomo a spingersi fino al punto più profondo in assoluto, una volta mi ha detto che lo spazio risulta più attrattivo perché quello che ci permette di vedere è molto bello: razzi fiammeggianti, fantastiche tute spaziali, infiniti panorami di stelle e pianeti. Il mondo sommerso invece è fatto di sommergibili che spesso sembrano goffi, la visibilità è limitata e spesso si riduce a zero, perciò niente panorami mozzafiato. E molte volte non c’è davvero granché da ammirare. Poi manca anche quella spinta che nel caso dello spazio è stata la competizione tra americani e sovietici durante la Guerra Fredda. Qualche volta mi chiedo quanto sarebbe diverso il mondo attuale se in quel contesto al posto dello spazio ci fosse stato il mare. La mia speranza è che in futuro si raggiunga un maggiore equilibrio sia tra lo spazio e il mare sia negli stanziamenti di risorse per l’esplorazione di questi due ambienti”.

Tu hai fatto il sub, hai lavorato per le multinazionali del petrolio. Mi ha sempre affascinato il mondo dei subacquei che si immergono ad alte profondità per lavorare su cavi sottomarini, condotte e ancoraggi delle piattaforme. Fin dove ci si può spingere? Che persone sono? Che cosa vedono e vivono?

“Sì, prima di diventare biologo ho fatto il sub professionista per diversi anni nei campi petroliferi del Golfo del Messico e del Mar Cinese Meridionale. Questo lavoro mi ha dato l’opportunità di praticare l’immersione in un modo totalmente diverso rispetto a chi fa il sub nel tempo libero. Per fare un esempio, in genere non si usa l’erogatore ma il casco, e il gas da respirare non proviene da bombole assicurate alla schiena ma entra nel casco attraverso un tubo. Questa scelta è dovuta in parte alla tradizione, ma soprattutto perché i caschi sono molto più sicuri rispetto all’erogatore, se si considera che il lavoro da svolgere può anche essere di per sé pericoloso. Quando lavoravo nei campi petroliferi a volte stavo in saturazione per un mese, e questo poteva capitare tre o quattro volte all’anno. In pratica vivevo in una camera pressurizzata che veniva mantenuta alla stessa pressione della profondità a cui stavo lavorando, e respiravo un mix di elio e ossigeno. È questo il motivo per cui si chiama saturazione, perché il sangue e i tessuti si saturano di elio. Al termine del periodo di trenta giorni dovevo trascorrerne due o tre in lenta risalita, per permettere all’elio di uscire dal corpo senza formare bolle. Durante il periodo di saturazione potevo lavorare a grandi profondità anche per otto o dieci ore al giorno. A volte si trattava di mansioni piuttosto semplici, come accatastare sacchi di cemento tra due condutture, altre invece si lavorava con mezzi pesanti, per esempio con una gru su un pontone a un centinaio di metri sopra di noi, per movimentare parti della piattaforma petrolifera o lunghi spezzoni di conduttura. Oppure mi capitava di usare cannelli elettrici per tagliare le strutture di metallo. In breve, quando facevo il sub professionista mi è capitato di usare attrezzatura davvero particolare, come motoseghe idrauliche, lance ad alta pressione ed esplosivi. Il sub professionista è di fatto un operaio specializzato che lavora a grandi profondità, e chi vi si dedica tende ad avere un atteggiamento costruttivo, sangue freddo e la disponibilità a lavorare sodo in condizioni spesso di freddo estremo, forti correnti e assenza di visibilità. Forse adesso che ho qualche anno in più tendo ad avere una visione leggermente romantica di quel periodo, però resto convinto che per certi versi sia stato il lavoro più impegnativo e al contempo più gratificante che abbia fatto, e ancora oggi posso solo ammirare chiunque operi in questo settore”.

L’uomo sarà sostituito dai ROV e altre diavolerie robotizzate? Sparirà anche questo lavoro di sub super-specializzato?

“Probabilmente i robot subacquei, cioè i ROV (Remoted Operated Vehicles), non sostituiranno mai del tutto l’uomo in acque relativamente basse, diciamo fino a un centinaio di metri di profondità, ma già dagli anni Ottanta svolgono un numero sempre maggiore di operazioni che prima davano lavoro ai sub. Ormai molte strutture, soprattutto a grandi profondità, vengono progettate appositamente per essere poi mantenute in funzione ed eventualmente riparate dai ROV. C’è da dire però che in acque basse le prestazioni umane saranno sempre migliori rispetto a quelle dei robot, soprattutto se la visibilità è scarsa o nulla. Più che gli uomini, però, i ROV hanno sostituito soprattutto i piccoli sottomarini e i sommergibili che fino a non molto tempo fa si impiegavano in determinati settori di costruzione subacquea. È impossibile oggi pensare che esistano progetti di costruzione che coinvolgano sommergibili e non ROV, motivo per cui il loro uso industriale è praticamente scomparso. In questi ultimi anni i sommergibili si sono ritagliati una nicchia in ambito turistico, e in certi casi sono il nuovo giocattolo dei proprietari dei mega-yacht. Poi per fortuna li si continua a usare nei settori della ricerca e delle esplorazioni. Secondo me gli uomini, almeno alcuni, vorranno sempre esserci fisicamente, per così dire, anche a grandi profondità e malgrado i rischi. Mandare dei robot al nostro posto non ci basta, perché un uomo che lavora negli abissi suscita una speranza e un orgoglio ben maggiori che se là sotto ci fosse un robot”.

La barca su cui Bill Streever vive insieme con la moglie (foto Lisanne Aerts)

Ho conosciuto alcune apneiste al top nel mondo che hanno superato i -100 metri. Dopo aver superato la “porta degli abissi”, mi dicono che è come volare. Pratichi ancora l’apnea? Che cosa ti dà scendere senza bombole?

“L’immersione in apnea è un sport straordinario e un ottimo modo per esplorare i fondali marini. Io ho seguito dei corsi e la pratico spesso, ma non a livello agonistico. La massima profondità che ho raggiunto è stata di soli 40 metri, che non è niente rispetto a quel che fanno gli apneisti che partecipano alle gare. Per me e mia moglie l’apnea rappresenta semplicemente uno dei diversi modi per andare sott’acqua. A volte ci immergiamo in apnea, altre con le bombole e altre ancora con un tubo collegato alla superficie. Per un po’ di tempo a bordo della nostra casa galleggiante, cioè della nostra barca, abbiamo avuto un piccolo robot. Se potessimo permettercelo, ci piacerebbe anche avere un sommergibile, ma è davvero fuori portata per noi. Che cosa offre di diverso l’apnea rispetto ad altre forme di immersione? Prima di tutto un senso di libertà, perché non ci si porta dietro un’attrezzatura pesante e ingombrante. Poi ci sono la flessibilità e la comodità. Basta fare un tuffo, non serve una gran preparazione. L’apnea inoltre è una disciplina molto più fisica rispetto all’immersione con le bombole, ti fa fare esercizio, ma di un tipo particolare. Se ci si immerge ripetutamente in apnea o se si scende a grandi profondità la fisiologia si modifica, almeno temporaneamente, perché si innesca un meccanismo denominato ‘riflesso di immersione dei mammiferi’, che in realtà si verifica anche negli uccelli e nei rettili. Per quanto riguarda gli esseri umani, questa alterazione investe il cervello. Io dopo una giornata di apnea mi sento più riflessivo del solito, e credo che sia un’esperienza piuttosto comune. Infine l’apnea comporta una disciplina mentale diversa rispetto a quella necessaria in altre forme di immersione. A livello istintivo noi esseri umani non amiamo l’idea di smettere di respirare per diversi minuti, ma c’è un che di poetico, quasi, nell’idea che non ci si debba affrettare verso la superficie per riprendere fiato finché non si è certi che sia arrivato il momento di farlo, nell’idea che siano le funzioni esecutive a controllare gli istinti basilari”.

Queste donne mi hanno raccontato del rischio narcosi, delle allucinazioni. Ci sono atleti che spingono ancora più verso il fondo. Nell’apnea no-limits Herbert Nitsch ha raggiunto i -253 metri, per poi essere ricoverato in una camera iberbarica. Fino a quando pensi si potrà spingere l’uomo?

“Uno degli aspetti interessanti dell’apnea è che a livello scientifico non si è fatta molta ricerca per comprendere le alterazioni fisiologiche che avvengono durante un’immersione di oltre dieci o venti metri. Questo perché la gran parte degli studi si è svolta in piscina, dove i fondali sono piuttosto bassi. Quindi partiamo dal presupposto che quello che sappiamo sui sub che respirano aria pressurizzata valga anche per gli apneisti. La narcosi durante le immersioni viene di solito attribuita agli effetti narcotici dell’azoto in pressione. L’aria è composta al 78 per cento di azoto, e un sub che respira aria inizierà ad avvertire gli effetti della narcosi da azoto a profondità che si aggirano sui 40 metri: di solito si tratta di una leggera perdita di concentrazione e di una sensazione di euforia ancora più leggera. La maggior parte di chi si immerge subisce gli effetti estremi della narcosi a una novantina di metri, quando tra i sintomi possono comparire le allucinazioni e lo svenimento, il che non è proprio il massimo se ci si trova sott’acqua. La narcosi è un fenomeno noto tra chi si immerge respirando aria pressurizzata dalle bombole oppure da un casco, ma la subiscono anche gli apneisti, come ti hanno confermato le campionesse che citi. Io credo però che la narcosi di cui soffrono questi ultimi sia dovuta piuttosto a una maggiore concentrazione di anidride carbonica e a una minore quantità di ossigeno nel sangue e quindi nel cervello. Bisogna fare ancora un bel po’ di ricerca in questo campo, ma come è facile immaginare, riunire in un setting di ricerca dei fisiologi e degli apneisti che si immergono a grandi profondità è decisamente impegnativo. Quanto a Herbert Nitsch: è vero, nel 2012 ha raggiunto 253 metri di profondità in apnea: per scendere ha usato una slitta zavorrata e per risalire dei galleggianti solidi, ma in quell’occasione ha rischiato davvero la vita. Adesso non si pratica quasi più questa tipologia di apnea. Attualmente per scendere e risalire gli atleti si affidano soltanto alle proprie capacità fisiche, anche se ci sono comunque diverse discipline. In una di queste per esempio l’apneista si aiuta con una cima verticale, in un’altra invece scende e risale senza poterla toccare. In ogni caso gli atleti stabiliscono record ben oltre i 100 metri di profondità, e continuano a infrangerli. Ritengo comunque improbabile che un apneista, senza usare una slitta ma solo il proprio corpo e le proprie capacità, riesca anche solo ad avvicinarsi al record di profondità di Nitsch”.

I fondali sono la nuova frontiera. Minerali, petrolio, gas, batteri. Ma non sono di nessuno, oltre le zone di pertinenza degli Stati. Come vedi una regolamentazione generale, magari sotto l’egida dell’Onu, per far sì che non siano il nuovo Far West?

“Lo sfruttamento dei fondali marini dovrebbe essere assolutamente regolamentato, e prima lo si fa meglio è. Anche perché se ne parla già da una sessantina di anni. Io spero, come molti altri, che nel prossimo futuro le Nazioni Unite promulghino una serie di norme in merito, magari nell’ambito della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. D’altra parte ho l’impressione che il settore industriale interessato allo sfruttamento dei mari le accoglierebbe con favore, perché in linea di massima le regole portano con sé delle certezze. Adesso le aziende si ritrovano a investire centinaia di milioni di dollari con il dubbio che nuove leggi potrebbero porre fine alle loro speranze di profitto. In altre parole, una normativa non sarebbe soltanto e per forza di cose dalla parte degli ambientalisti. Ma non è certo semplice. Per esempio è difficile individuare e formulare un codice che sia realmente utile per la protezione degli abissi, e poi sovvenzionare un organismo di controllo che lo faccia rispettare. Persino alcuni aspetti delle norme attuali relative alla superficie del mare non mettono d’accordo tutti. Gli Stati Uniti per esempio non hanno ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in gran parte per le resistenze del Partito Repubblicano, il che è francamente folle. O idiota, non saprei. Oppure entrambe le cose”.

L’estrazione del petrolio, gas, ma anche minerali mette fortemente a rischio i fondali e gli oceani. Ma tu pensi che si possa davvero arrivare a difendere gli oceani o è solo una illusione?

“Chi oggi fa immersioni subacquee è per forza di cose un ecologista. Chiunque vada sott’acqua da più di un decennio o due sa che cosa sta succedendo. È sotto i nostri occhi, e ci fa male. Il mare sta morendo, e le cause sono moltissime. Non è soltanto l’estrazione di petrolio, gas e minerali a presentare dei rischi. I mari sono in sofferenza per la pesca eccessiva, per l’introduzione e la diffusione di specie aliene, per il cambiamento climatico e la conseguente acidificazione delle acque, per l’impatto acustico causato dalle navi e dalla sorveglianza sismica, per l’inquinamento da nutrienti, che arriva in mare dai principali fiumi a livello mondiale e che crea delle estese zone prive di vita, per le sostanze pericolose che vi vengono sversate di proposito o accidentalmente. I mari, come la terra, soffrono a causa dell’enorme aumento della popolazione mondiale accompagnato da un consumismo apparentemente insaziabile unito a indifferenza e affarismo. Malgrado tutto questo io rimango ottimista, almeno sul lungo periodo. Gli esseri umani sono qui sul pianeta da centinaia di migliaia di anni, ma la loro capacità di distruggere la biosfera si è manifestata al massimo qualche centinaio di anni fa. E il movimento ambientalista esiste soltanto da una cinquantina o sessantina di anni. In questo momento stiamo continuando a distruggere delle aree dei nostri oceani, ma ho fiducia nel fatto che le persone a un certo punto diventeranno più consapevoli, inizieranno a limitare i danni e poi a invertire la rotta. Ovviamente dobbiamo stare tutti in guardia, impegnarci di più per il nostro pianeta e pretendere che i governi che eleggiamo e le aziende che sosteniamo con i nostri acquisti attuino delle buone pratiche. Per quanto riguarda la protezione dell’ambiente siamo ancora dei dilettanti, ma tra non molto diventeremo degli esperti. Le attuali generazioni stanno assistendo a questa transizione”.

Victor Vescovo ha raggiunto i 5 punti più profondi degli Oceani (Fossa di Porto Rico, South Sandwich Trench, Java Trench, Challenger Deep, Molloy Deep). Tu, potessi, dove vorresti scendere?

“Vorrei immergermi in tutti quanti! Victor Vescovo è un uomo fortunato. La gelosia non è un sentimento che mi appartiene, ma in questo caso sono un po’ invidioso delle sue immersioni. D’altra parte se avessi l’opportunità di rifare quello che ha fatto lui oppure di usare la stessa quantità di denaro per proteggere gli oceani, la mia scelta sarebbe ovvia. Rimarrei in superficie e userei i fondi per la protezione del mare”.

Vivere in barca. La tua scelta è irreversibile? Non torni più indietro? Invidiandoti, ti chiedo: come è cambiata la tua vita? ci vuole abbastanza denaro per fare una scelta del genere (riesci a vivere con i tuoi libri?) ? Riesci a gestire meglio il tuo tempo? La tua famiglia?

“Io e mia moglie siamo fatti per vivere sul mare e per girarlo, e continueremo ad abitare sulla nostra barca a vela finché la salute ce lo permetterà. Per noi la domanda giusta non è: è una scelta irreversibile? ma: perché ci avete messo tanto? Detto questo, conosciamo molte persone che vivono in barca per un po’ di anni e poi ritornano sulla terraferma per mettere su famiglia o per fare carriera in modo più tradizionale. Come è cambiata la nostra vita a bordo? Sulle barche non c’è molto spazio, perciò sei costretto a diventare un coscienzioso minimalista, a possedere soltanto le cose realmente importanti. Ma non è soltanto questo. Quando abitavamo sulla terraferma e facevamo i biologi passavamo davvero troppo tempo in ufficio a scrivere relazioni e articoli, mentre avremmo voluto stare più a contatto con l’ambiente che studiavamo. Ed è quello che facciamo adesso. Ci svegliamo con il mare e ci addormentiamo con il mare. Qualche volta veniamo svegliati dal mare anche se non vorremmo, ma fa parte del gioco, la vita è anche questo. Quanto ai costi, per la maggior parte delle persone sono simili sulla terraferma e a bordo, perché in genere si tende a spendere il denaro che si ha. Però lo si spende in maniera diversa. Quando vivevamo sulla terraferma, per esempio, avevamo un’automobile, adesso quei soldi ci servono per fare manutenzione alla barca. Il denaro che ci serve per vivere deriva da alcuni investimenti, dalla scrittura e dalle consulenze. Per esempio ultimamente ho accettato di fare da consulente per una ricerca ambientale sull’energia eolica offshore. D’altra parte conosciamo molti altri velisti che hanno un lavoro a distanza. Non c’è dubbio che sia più facile guadagnarsi il pane se si abita in una casa normale che su una barca a vela, ma nella vita c’è anche molto altro. Per quanto riguarda la gestione del tempo, il mare e la barca vengono al primo posto, perciò i nostri progetti sono in balia del bollettino meteo e di eventuali imprevisti legati alla manutenzione. Però ci sono anche delle gradite distrazioni che a volte ci cambiano completamente la giornata, come è successo poco tempo fa quando uno squalo balena ha gironzolato intorno alla barca per diverse ore. Questa mancanza di controllo fa parte della vita che ci siamo scelti, forse una delle sfide più grandi per chi abita su una barca a vela. Quanto alla famiglia: naturalmente è molto importante. I membri della mia, come spesso accade, vivono in posti diversi, anche in paesi diversi. Per quanto è possibile cerchiamo di non prendere aerei, ma di tanto in tanto cerchiamo di andare a trovare i nostri cari e invitiamo loro a venire da noi, ovunque ci troviamo”.

“Si dice che porti male parlare di un libro che non si è ancora finito di scrivere, ma in effetti mi fa piacere dirti che ne sto scrivendo uno sull’attuale problema dell’estinzione. Il libro parla della protezione delle tartarughe marine, e vorrei davvero essere ottimista nella nostra battaglia per porre fine alle estinzioni provocate dall’uomo. Tutti i miei libri parlano di esseri umani e natura, ma questo sarà il più agguerrito nel chiedere a gran voce un cambiamento, nel pretendere che la relazione tra gli esseri umani e le altre specie prosegua su una strada migliore dell’attuale. Spero di vederlo pubblicato anche in italiano!”.